
In un Corno d’Africa dove la tensione cresce da più parti, il consolidamento delle relazioni tra Asmara e Khartum appare come una sempre più positiva controtendenza, indicando buoni auspici anche per individuare una via d’uscita al drammatico conflitto civile che insanguina il Sudan da aprile 2023. Proprio lo scorso 10 ottobre il Primo Ministro sudanese Kamil Idris ha infatti concluso la sua visita ufficiale di due giorni ad Asmara, dove è stato ricevuto dal Presidente eritreo Isaias Afwerki per discutere d’importanti questioni bilaterali come la cooperazione economica, la sicurezza e la stabilità regionale. Andando oltre le sembianze di un comune evento diplomatico bilaterale, l’incontro ha manifestato il ruolo di giorno in giorno sempre più attivo dell’Eritrea nel dar sostegno al Sudan: molto più, come vedremo, di un “paese fratello”. Il premier sudanese è giunto ad Asmara il 9 ottobre 2025, accompagnato da una delegazione d’alto livello formata da Ministro degli Esteri Mohi El-Din Salem e dal Ministro della Cultura, dell’Informazione e del Turismo, Khalid Ali Aleisir. Obiettivo principale, come riferito da Sudan Tribune, rafforzare i legami bilaterali tra Sudan ed Eritrea, con particolar enfasi su sicurezza, intelligence e progetti economici congiunti. Come dichiarato da Sudan Horizon, durante i colloqui al Palazzo di Stato Idris ha trasmesso un messaggio di saluti dal Presidente del Consiglio Sovrano sudanese, il Generale Abdel Fattah al-Burhan, elogiando la “posizione coraggiosa” dell’Eritrea nel supportare il Sudan durante “tempi difficili causati da una guerra imposta”. Dal canto suo, il Presidente Afwerki ha ribadito il sostegno incondizionato dell’Eritrea all’unità e alla dignità del Sudan, sottolineando che la posizione di Asmara è “principale ed immutabile”. Al termine della visita, le due parti hanno concordato anche d’intensificare la cooperazione in altri settori come la pesca, le raffinerie e l’estrazione mineraria, oltre a coordinarsi in forum regionali e internazionali, inclusa la campagna per il ritorno del Sudan nell’Unione Africana. Passeggiando poi per la capitale col Presidente Afewerki, Idris ha incontrato i membri della comunità sudanese nel paese, molti dei quali giunti proprio dopo lo scoppio del conflitto civile ed ospitati “come fratelli, condividendo il pane e il tetto” da Asmara, e concesso infine una ben articolata intervista all’agenzia eritrea Shabait.
La visita capita in un contesto di relazioni storiche davvero profonde e complesse per i due paesi. L’Eritrea ha storici legami etno-culturali col Sudan (si pensi alle popolazioni Beja, che abitano proprio tra Eritrea occidentale e Sudan orientale, lungo tutto il confine) e svolto più volte un ruolo di mediazione in passati conflitti. Dall’inizio della guerra civile, Asmara ha dato un attivo sostegno al governo sudanese guidato dalle Forze Armate Sudanesi (SAF) contro le Forze di Supporto Rapido (RSF) guidate da Mohamed Hamdan Dagalo Hemedti, addestrando militari sudanesi, agendo con intelligenza nel mediare tra le parti che le si erano rivolte, fornendo le piste dei propri aeroporti agli aerei delle SAF minacciati dai droni delle RSF; e, non ultimo, come già detto, dando rifugio anche a migliaia di civili che altrove sarebbero andati incontro alla morte o, forse, finiti in un campo profughi. Secondo l’emittente Dabanga Sudan, importanti gruppi come il Congresso Beja e il Fronte Popolare Unito per la Liberazione e la Giustizia si sarebbero allineati con le SAF. Tuttavia, stando a certi analisti critici, di marca prevalentemente atlantica, questa alleanza potrebbe innescare conflitti tribali interni al Sudan, con interferenze di Asmara negli affari sudanesi fatte da costoro risalire già agli Anni ’90. Un’opinione invero piuttosto risibile, giacché proprio in quegli anni, quando Khartum era sotto il lungo dominio di Omar al-Bashir, avvenne l’esatto contrario, con l’Eritrea ritrovatasi a patire i tentativi di destabilizzazione condotti nei suoi confronti da un’insolita “triplice” formata dai governi sudanese, etiopico e yemenita del tempo. Quella “triplice”, composta dal sudanese Bashir, dall’etiopico Zenawi e dallo yemenita Saleh, agiva peraltro col ben più che speranzoso favore di Stati Uniti ed Unione Europa. La storia insegna pure che sempre quei paesi, o loro importanti componenti interne in dissidio coi rispettivi governi centrali, finirono poi con l’invocare un supporto diplomatico di Asmara come mediatrice per venir fuori dai loro conflitti, peraltro con un immancabile benché mai del tutto abbastanza propagandato plauso internazionale. Si pensi, ad esempio, alla mediazione nell’Accordo di pace tra il governo sudanese e il Fronte Orientale del 2006.
Oggi, come ricorda Mesob Journal, il sostegno eritreo al Sudan è dovuto a vari interessi strategici, come la sicurezza ai confini e la stabilità nel Mar Rosso e nel Corno d’Africa; ma anche alla storicità dei legami tra i due paesi, con popolazioni e culture comuni, e l’importante appoggio che i governi di Khartum precedenti all’epoca di Bashir, come quello di Jaafar Nimeyri, diedero all’EPLF e ai civili eritrei durante la Guerra di Liberazione dall’Etiopia. Nella sua visita, Idris ha sottolineato la necessità di progetti congiunti per contrastare le sfide regionali, riflettendo la visione eritrea di un Sudan unito contro influenze esterne destabilizzanti. Infatti il conflitto civile sudanese, scoppiato nell’aprile 2023 tra le SAF e le RSF, dura ormai da trenta mesi venendo di volta in volta rinfocolato proprio da numerose ed interessate mani esterne. Ad ottobre 2025, secondo fonti di ONU, di The New Arab e di Sudan Tribune, la guerra ha causato oltre 150.000 morti a cui si sommano gli oltre 522.000 bambini periti per fame, i più di 14 milioni di sfollati e i 24,6 milioni di persone in un bisogno urgente d’aiuti umanitari. Soprattutto in aree come il Nord Darfur e le Montagne di Nuba la carestia, mista alla ferocia degli scontri, impera nel modo più spietato. L’epicentro della violenza è indicato proprio in El Fasher, capitale del Nord Darfur, cinta d’assedio dalle RSF i cui attacchi, come denunciato da Al Jazeera, hanno ucciso almeno 20 civili in una moschea e in un ospedale solo tra il 5 e l’8 ottobre scorsi, ed oltre 53 morti e 60 feriti in pochi giorni. La furia dei conflitti e la ricerca di una salvezza alimentare fa sì che dopo due anni e mezzo la popolazione nelle città sia calata del 62%, con più di 260.000 persone intrappolate in condizioni catastrofiche. Il sistema sanitario è nel frattempo collassato, l’inflazione marcia sopra il 170% (al cambio ufficiale, servono 600 sterline sudanesi per un dollaro: immaginiamoci al mercato nero) e l’economia risulta contratta del 42% rispetto ai livelli prebellici: a tanto si sono spinti alcuni paesi, quelli che davvero hanno ingerito in Sudan scatenandovi il conflitto civile nella primavera 2023, pur di sovvertirne il processo di transizione politica inauguratosi col dopo-Bashir. Esattamente come nel caso della Somalia, solo permettendo alle varie componenti interne del Sudan d’accordarsi liberamente tra loro, senza ingerenze non richieste, si potrà rivedere il paese finalmente unito ed in pace; e, proprio come nel caso somalo, chi fa di tutto per impedire che ciò avvenga, non va certo cercato lungo le sponde del Mar Rosso. Tanto per la Somalia quanto per il Sudan la storia e l’attualità ci indicano ben altre piste da seguire: sta almeno agli osservatori più accorti e ragionevoli giungere alle ovvie e dovute conclusioni.
Il conflitto sudanese è, come già dicevamo, esacerbato da un intreccio d’interessi esterni, con potenze regionali e globali che supportano fazioni opposte, complicando ogni sforzo di pace. Un primo nome andrebbe indicato negli Emirati Arabi Uniti (EAU), principale sostenitore delle RSF, cui forniscono armi, finanziamenti e supporto logistico attraverso il Ciad, la Libia, l’Etiopia e gli stati somali del Somaliland e del Puntland. Dopotutto, Addis Abeba ha più di un interesse ad indebolire il Sudan, favorendovi anche una nuova frammentazione per consolidare la sua presa sul Nilo e guadagnare un’area strumentale ad un suo accesso, pure indiretto, al Mar Rosso. Gli interessi emiratini ed etiopici, su questo punto, hanno trovato più di una facile convergenza; esattamente come, rivolgendosi verso il Golfo di Aden, l’hanno trovata nel favorire le tendenze centrifughe interne della Somalia, in primo luogo proprio coltivando i sogni separatisti di quanto resta del Somaliland (dopotutto, dalla sua proclamazione nel 1991 ad oggi, le sue aree orientali ed occidentali si sono a loro volta scisse per ritornare con Mogadiscio, lasciando la “capitale” Hargeisa con ben poco tra le mani). In Libia, approfittando della porosità dei confini sahariani sud-orientali, sotto controllo tribale, gli EAU, che con Bengasi hanno complessivamente un buon rapporto, forniscono robusti rifornimenti alle RSF, e non di meno lo stesso avviene anche per quanto riguarda il Ciad; là ugualmente la permeabilità frontaliera e la familiarità tra gruppi come le RSF, pur sempre legati alle congregazioni clanico-tribali della Baggara ciadiana, facilitano cospicui e consimili transiti. Fino allo scorso anno, quando in Ciad i francesi ancora vi detenevano le loro basi, gli EAU ne facevano un disinvolto uso per recapitare alle RSF tout le nécessaire: ma oggi sono fuori dalla partita, e così Abu Dhabi compensa con nuovo e più moderno materiale militare, recapitato via aerea e comprato anche all’insaputa dei paesi produttori (ad esempio così è avvenuto con armamenti cinesi, scatenando una crisi diplomatica tra Pechino ed Abu Dhabi non appena la prima è stata informata da Khartum, che ne aveva catturato degli esemplari dalle RSF) oltre ad aerei carichi di mercenari colombiani ed europei. Qualcuno di quegli aerei è stato pure abbattuto dalle forze di contraerea delle SAF: un discreto danno per gli uomini di Hemedti, quelle RSF un tempo note come i famigerati Janjaweed di Bashir.
Vi è poi una neanche troppo lontana interazione di Israele, sempre assai interessata a tutto ciò che concerne le aree dal Mar Rosso alla Valle del Nilo, fino ai Grandi Laghi e al Sudafrica: fa parte della sua storia, chi conosce la strategia israeliana dell’Alleanza della Periferia saprà di cosa parliamo. Gli Stati Uniti, che proprio poco prima che scoppiasse il conflitto civile a Khartum avevano mandato in visita una certa Victoria Nuland, all’epoca loro Segretaria di Stato (pure a Kiev, a suo tempo, venendo in visita vi aveva messo “una mano santa”), giustamente non vi hanno mai avuto granché da ridire; ed ora che cercano di venir fuori da quella grave responsabilità, presentandosi da mediatori e nascondendosi in un eterogeneo Quad formato con Egitto, Arabia Saudita ed EAU, sono stati rimandati alla porta. Gli europei, che insieme agli Stati Uniti e al Quad avevano messo su delle “riunioni fiume” a Parigi a Londra, ugualmente sono scivolati come la pioggia sulle tegole. Il Kenya, tentando d’agganciarli, aveva puntato pure ad ospitare un ipotetico governo parallelo di Hemedti, che col riconoscimento di una loro parte avrebbe certificato la “quasi secessione” nel Sudan. Dopo quella già vista col Sud Sudan, che ora sta a sua volta conoscendo un conflitto civile analogo, un’ulteriore frammentazione del Sudan precipiterebbe l’area centrale della Valle del Nilo nel caos più totale, con una destabilizzazione che coinvolgerebbe Corno d’Africa, Sahel, Grandi Laghi ed Africa Centrale, unendo in un sol blocco le immani crisi già in corso dalla Repubblica Democratica del Congo all’Etiopia, dal Ciad alla Repubblica Centrafricana fino all’AES, e non solo.
A dar sostegno alle SAF, sposando le posizioni di Asmara, sono invece l’Egitto, tradizionale partner di Khartum, l’Arabia Saudita che ha tra l’altro più volte tentato di mediare tra SAF e RSF con colloqui a Jeddah, e l’Iran che a Khartum fornisce armi e droni. Riyad, a testimonianza del clima di pace e neutralità venutosi a creare con la pace tra Arabia Saudita ed Iran mediata da Pechino nella primavera 2023, permette fra l’altro ai cargo iraniani di sorvolare il proprio spazio aereo per rifornire coi suoi armamenti le SAF. Del resto, Arabia Saudita ed Iran concordano pure nel considerare come una grave minaccia alla loro stessa sicurezza regionale l’eventuale crescita dell’influenza di loro avversari chiave come gli EAU ed Israele in Sudan e Somalia, tra Valle del Nilo, Mar Rosso e Golfo di Aden. La Cina, grande partner economica, infrastrutturale ed energetica di Khartum, e con una forte vocazione diplomatica, auspica una mediazione volta a sanare gli scontri interni restituendo coesione e stabilità al paese. Infine la Russia, in principio accusata di fornire un sostegno alle RSF tramite le Wagner (ciò aveva attratto pure l’intelligence e il mercenariato ucraini, che vi vedevano, oltre ad una nuova occasione per internazionalizzare in terra d’Africa il conflitto con Mosca scontrandosi coi russi, la possibilità pure di lucrare dalla guerra civile sudanese vendendovi armamenti teoricamente destinati al fronte del Donbass), ha presto manifestato il proprio sostegno a Khartum come unico governo legittimo e garante di stabilità nel martoriato paese, ancor più quando le stesse Wagner sono state poi sciolte ed in gran parte travasate nel nuovo Corpo Africano di Russia, controllato dall’esercito russo.