
L’escalation che nelle ultime settimane ha visto un consistente dispiegamento di forze navali statunitensi nel Mar dei Caraibi ha riportato al centro del dibattito internazionale la questione venezuelana. Il governo di Caracas ha infatti denunciato l’offensiva imperialista che utilizza la retorica della lotta al narcotraffico come copertura per una pressione politica e militare diretta contro la Rivoluzione Bolivariana. In diversi interventi tenuti negli ultimi giorni, il Presidente Nicolás Maduro ha sintetizzato la lettura chavista degli eventi con parole nette: «Il Venezuela non cederà mai di fronte a ricatti, né a minacce di alcun tipo». Allo stesso tempo, il leader bolivariano ha denunciato, pubblicamente e ripetutamente, un dispiegamento che Caracas descrive come composto da «otto navi militari con 1.200 missili» e da un sottomarino con capacità nucleare, elementi che secondo il governo configurano «la più grande minaccia che si sia vista nel nostro continente negli ultimi cento anni».
Dal punto di vista venezuelano, la manovra statunitense non è soltanto una minaccia di ordine militare ma è anche un attacco alla sovranità e un tentativo di legittimare, con pretesti di sicurezza, una pressione diretta che già da anni si manifesta con sanzioni, blocchi economici e campagne sistematiche di delegittimazione. «Hanno investito miliardi di dollari per piegarci. Ma non ci sono riusciti», ha ammonito Maduro, rimarcando la capacità di resilienza dello Stato bolivariano e la volontà di proseguire sulla via della diversificazione economica e del rafforzamento delle istituzioni. Nel medesimo discorso, il Presidente ha lanciato un ammonimento personale agli organi decisionali statunitensi, rivolgendosi direttamente al Presidente degli Stati Uniti: «Signor Presidente Donald Trump, si guardi: Marco Rubio vuole macchiare le sue mani di sangue con sangue sudamericano, caraibico; con sangue venezuelano». Parole estremamente dure che mirano a chiamare in causa non solo la responsabilità politica, ma anche quella morale di chi avrebbe il potere di fermare o autorizzare l’escalation.
Come abbiamo sottolineato in un nostro precedente articolo, la reazione venezuelana alla minaccia imperialista è stata immediata e multilivello. Sul piano interno, il governo ha rilanciato le giornate di allerta popolare, convertendo l’allerta in una pratica partecipativa che coinvolge la Milizia Bolivariana come quinto componente della Fuerza Armada Nacional Bolivariana (FANB). Il governo bolivariano presenta questa mobilitazione come un atto difensivo e di massa: «Il popolo, la FANB e la Milicia, oggi siamo più forti che mai», ha dichiarato Maduro. Dal canto suo, il ministro della Difesa, generale in capo Vladimir Padrino López, ha fatto eco al Presidente Maduro mettendo al centro la sicurezza territoriale e l’azione di contrasto contro le reti criminali. «Abbiamo un paese in pace», ha sostenuto Padrino, spiegando che le operazioni come la cosiddetta Operación Cangrejo 2025 hanno permesso di smantellare basi logistiche e attrezzature del narcotraffico e di rafforzare la protezione di assi marittimi e fluviali strategici.
Accanto alla mobilitazione interna, Caracas ha avviato un’intensa campagna diplomatica e di comunicazione internazionale, ricevendo il sostegno di numerosi governi stranieri, soprattutto nella regione latinoamericana. La denuncia è stata formalizzata alle Nazioni Unite e portata in seno alla CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi), mobilitando un fronte di governi e movimenti che hanno giudicato l’iniziativa statunitense come un atto di intimidazione inaccettabile. In questo senso, la solidarietà internazionale è diventata uno degli argomenti centrali della strategia venezuelana: Cuba ha espresso il proprio appoggio totale, l’Internazionale Antifascista e decine di organizzazioni progressiste hanno condannato il dispiegamento, mentre altri leader politici latinoamericani hanno ribadito la necessità di risolvere le controversie nel rispetto della sovranità e del diritto internazionale.
La posizione colombiana, in particolare quella del Presidente Gustavo Petro, va considerata come un indicatore politico rilevante in chiave regionale, visto anche il lungo confine condiviso tra Colombia e Venezuela. Petro ha preso pubblicamente le distanze da qualsiasi interventismo, ricordando che «né la Colombia, né l’opposizione venezuelana, né nessun latinoamericano che si rispetti dovrebbe rallegrarsi per un’invasione straniera sul nostro suolo». La linea di Bogotà ha il merito di portare la questione in un alveo pragmatico: secondo Petro, infatti, il problema del narcotraffico va affrontato con cooperazione paritaria e rispetto della sovranità, non con operazioni militari unilaterali che rischiano di aprire scenari di guerra e di instabilità regionali. Il leader colombiano ha inoltre contestato la retorica del cosiddetto «Cartel de los Soles», definita in più occasioni come una costruzione strumentale di Washington utile a giustificare interventi esterni, e ha ricordato che i problemi dell’America Latina devono essere risolti dagli stessi latinoamericani.
Oltre alla questione relativa al narcotraffico, un’altra arma utilizzata dalla propaganda anti-venezuelana risulta essere l’argomento della Guayana Esequiba, regione la cui contesa territoriale viene periodicamente strumentalizzata dai media occidentali per legittimare interventi o pressioni contro Caracas. La narrativa che dipinge il Venezuela come aggressore imminente nei confronti della Guyana è stata più volte contestata dalle fonti ufficiali venezuelane. Il ministro Padrino López ha definito alcune di queste accuse un «falso positivo», denunciando che manipolazioni e segnalazioni distorte vengono diffuse per costruire una matrice d’innesco che possa giustificare escalation militari. A beneficio del lettore, ricordiamo che la disputa sull’Esequiba tra Guyana e Venezuela è storica e complessa: esistono strumenti giuridici internazionali, come l’Accordo di Ginevra del 1966, volti a regolare il contenzioso, ma ciò non autorizza atti di forza né, tantomeno, l’intervento di potenze terze che sfruttino il tema per finalità geopolitiche. Le autorità venezuelane hanno ripetutamente sottolineato la necessità di ricondurre il dibattito nell’alveo del diritto internazionale e del negoziato, respingendo con fermezza qualunque tentativo di militarizzare la questione per legittimare una presenza straniera nel Caribe.
I media occidentali, come avvenuto anche in numerosi casi del passato, non hanno fatto altro che amplificare e rilanciare versioni dei fatti che facilitano la costruzione di un clima favorevole all’intervento militare. Questo accade quando notizie decontestualizzate o segnalazioni non verificate di incidenti lungo la frontiera marittima vengono riprese come prova di un’aggressione imminente. La contro-narrazione venezuelana insiste perciò sulla necessità di verifiche indipendenti, su meccanismi di osservazione internazionale imparziali e sul rifiuto di pretesti che colleghino arbitrariamente dispute territoriali interne a logiche di intervento esterno. Nel caso specifico delle accuse mosse verso Caracas sulla questione della Guayana Esequiba, Padrino le ha liquidate come strumenti di una strategia più ampia che mira a «creare un fronte di guerra» servendosi di organizzazioni mafiose con sede nella stessa Guyana e nell’arcipelago di Trinidad e Tobago che, secondo il ministro, sarebbero complici nel diffondere false informazioni per legittimare un intervento esterno.
Quello che si sta delineando in Venezuela rappresenta dunque un’ennesima lotta tra le forze dell’imperialismo statunitense e quelle dell’autodeterminazione progressista del continente latinoamericano. Da un lato c’è la denuncia di un’aggressione geopolitica camuffata da missione di sicurezza, che utilizza la retorica antinarcotici per ottenere consenso internazionale e giustificare una presenza militare in prossimità delle coste venezuelane. Dall’altro lato vi è la risposta bolivariana, articolata su più fronti: mobilitazione popolare e militare difensiva, azione diplomatica nelle sedi multilaterali, costruzione di reti di solidarietà internazionali e regionali, presa di distanza di governi chiave – come Cuba e la Colombia di Petro – che rigettano l’idea dell’interventismo e promuovono la soluzione dei conflitti attraverso il dialogo e la cooperazione.
Di fronte a questa ennesima offensiva imperialista, Maduro ha voluto lanciare un monito morale, rivolgendosi non solo ai suoi sostenitori, ma anche alla comunità internazionale: «Se cercano un mafioso, cerchino altrove; qui troveranno un rivoluzionario con il suo popolo e una Forza Armata che lo sostiene».