
“Per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare quei programmi demenziali con tribune elettorali”: così cantava Franco Battiato in tutte le radio nell’indimenticabile estate del 1982. E’ passato molto tempo da allora e i programmi di questo genere sono diventati ancora più demenziali, ma soprattutto ce ne sono molti di più. Ormai tutti i ‘talk-show’ in cui si parla di politica sono in pratica tribune elettorali, poiché in Italia è in corso almeno da vent’anni una campagna elettorale permanente. Se alcune di queste trasmissioni non sono mai andate in ferie, col mese di settembre tutte quelle sospese andranno a ricominciare. Forse la cosa migliore sarebbe essere razzisti come Battiato ed evitarle in toto, tanto le cose salienti che vi possono accadere diventeranno poi notizie dei successivi notiziari, creando così uno strano corto-circuito di autoreferenzialità televisiva: anche chi s’interessa di politica, se non li guardasse, non si perderebbe proprio niente di interessante. Poco più d’un mese fa Matteo Renzi ha bocciato pubblicamente i talk show politici, affermando che avrebbero “sostituito le fiction, perché sono pieni di colpi di scena ma non succede mai nulla”: fa specie che simili dichiarazioni vengano proprio dal leader di un partito di iper-presenzialisti in queste trasmissioni che, per di più, nel periodo in cui Beppe Grillo aveva impedito di parteciparvi ai suoi lo avevano tacciato di antidemocraticità, come se l’azione politica democratica non potesse prescinderne. Fatta la tara della sua ipocrisia, non si può che essere d’accordo col giudizio del Presidente del Consiglio: si tratta, lo dice anche il nome, di “show”, di spettacolo, non di approfondimento, quindi i conduttori cercano gli ascolti e non di mettere gli ospiti nella condizione di esprimersi in modo chiaro. Per far lievitare l’audience, niente è meglio di un alterco, allora chi conduce fa di tutto per “metterci il pepe”, se gli spettatori non ci capiscono niente poco importa, ciò che conta è che in studio ci si scaldi! Un tempo l’approfondimento politico avveniva attraverso interviste, nelle quali un giornalista sottoponeva l’interlocutore a un interrogatorio stringente per far emergere la verità, soprattutto se questi si mostrava riluttante a rispondere su temi poco chiari e scottanti. L’intervistato poteva essere incalzato, anche accusato, ma non veniva mai insultato: altri tempi. L’intervistatore tentava di presentarsi essendo già in possesso di elementi di verità e di prova, raccolti in modo indipendente attaverso fonti e testimonianze, cosicché l’ospite era chiamato a dire la propria pur sapendo di rischiare una smentita clamorosa. Certo le cose non andavano sempre così bene, talora non si tentava davvero di mettere in difficoltà l’intervistato, ma in questo caso il giornalista poteva venire contestato e accusato di essere “venduto”. La virtuosa contrapposizione intervistatore-intervistato scompare quando sono presenti più esponenti politici di schieramenti diversi, così nemmeno dire la verità conta più: ognuno dà non solo la propria opinione, ma enumera pure i propri dati differenti da quelli dell’avversario, lasciando che gli spettatori, che “non sono certo degli stupidi” (allora perché vengono tattati come tali?) si formino una propria idea. La ricerca della verità è diventata ‘fact-checking’, ma soprattutto non la si fa più: “the show must go on”. Allora quando una parte politica è accusata di non aver fatto niente di buono, qualche suo esponente la difende dicendo “noi abbiamo fatto molto, ma non siamo stati altrettanto bravi a comunicarlo”, affermazione poco credibile, poiché oggi sono tutti molto più capaci di affabulare anziché di agire nel concreto: raccontare storie ora si chiama ‘storytelling’ e viene considerato un importante pregio del bravo comunicatore politico, ma alla fin fine resta sempre un sinonimo di mentire. E’ inutile che questi politicanti si affannino a definire ‘fatti’ tutto ciò che rivendicano loro e ‘solo parole’ ciò che viene affermato da altri, perché le persone che vivono in condizioni di difficoltà, quando sentono certe fandonie, almeno quelle che riguardano in modo diretto la loro vita, sanno comunque riconoscerle. Non c’è niente che venga percepito come più parolaio della retorica del “fare”. Il politico di successo oggi, oltre che incantare una platea, deve quindi saperlo fare anche emergendo nell’ambito di uno scontro, non certo in virtù della bontà dei propri argomenti, metodo che richiederebbe una continua messa in discussione di sé e degli stessi argomenti, ma per mezzo di artifici retorici oppure, nel peggiore dei casi, di trucchi da venditore. Per ottenere consenso è importante apparire come i vincitori di ogni disputa o almeno non esserne sconfitti in maniera troppo palese, allora se ci si trova in difficoltà si tenta di creare confusione, cosa non certo difficile: basta insultare l’avversario, oppure dirsi risentiti da qualcosa che questi ha detto, insomma metterla sul personale. Non esiste poi una vera discussione tra politici in cui almeno una volta uno non rinfacci l’altro di averlo interrotto: non si pensi a questo come un fatto di scarsa importanza, dimostrarsi capaci d’interrompere senza permettere al rivale di fare altrettanto è un segno di potere, corrisponde alla preminenza nel cosidetto ‘ordine di beccata’. Molto spesso si assiste ad interventi che iniziano con una stoccata, se non addirittura con un insulto, nei confronti di uno dei presenti, per poi poi continuare molto a lungo, senza per altro dire niente: sembra quasi si tenda una trappola per essere interrotti, così da poter dare del maleducato all’altro, usando la fatidica frase “ma io non l’ho interrotta!”. Un altro classico schema consiste nell’accusare l’interlocutore perché si sta innervosendo, come se ciò dimostrasse qualcosa di rilevante: la calma è in genere percepita come sintomo di sicurezza, ma di fronte a una situazione ingiusta arrabbiarsi è dimostrazione d’intelligenza emotiva e può suscitare empatia in chi condivide la stessa indignazione. Un’argomentazione usata sempre più spesso da chi ha responsabilità di governo, nazionale o locale che sia, è tentare di sfuggire alle proprie responsabilità accusando l’opposto schieramento di aver governato male quand’era il suo turno, cosa che può interessare forse a coloro che seguono la vita politica coll’atteggiamento del tifoso di una delle parti in causa, ma non a quelle persone, sempre più numerose, che considerano inadeguata e colpevole la classe politica nel suo insieme: non è un caso se l’affluenza elettorale tende a diminuire, come del resto gli indici di ascolto degli stessi talk-show. I conduttori di solito si impongono e interrompono tutto questo vaniloquio solo quando arriva il momento di mandare la pubblicità: ciò dovrebbe già aiutarci a ricordare, mentre stiamo guardando una di queste trasmissioni, che si tratta soltanto di spettacolo e l’unico scopo reale è tenerci fermi davanti alla tivù nel tempo che intercorre tra una pubblicità e l’altra.

[…] aver rispetto degli elettori che, dicono, “non sono certo degli stupidi”, ma in realtà li trattano come tali, si pensi alla stucchevole retorica renziana del nuovo ad ogni costo: non ha proprio nessun senso […]