
Martedì 9 Settembre viene inaugurata la GERD, la Grand Ethiopian Renaissance Dam. Alimentata dalle acque del Nilo Azzurro e situata a breve distanza dal confine sudanese, dal 2011 la sua costruzione ha generato infinite polemiche tra Etiopia, Sudan ed Egitto, con pesanti ripercussioni anche sugli altri attori regionali. Con una capacità di 6.450 MW ed un costo di 5 miliardi di dollari, appare oggi la più grande infrastruttura di questo genere in tutto il Continente Africano, sopravanzando in netta misura le dighe di Assuan in Egitto, di Merowe in Sudan o di Gilgel Gibe III, sempre in Etiopia. Già quest’ultima, costruita sul fiume Omo, ha fornito all’Etiopia un raddoppio nella produzione energetica rispetto ai livelli precedenti; la GERD, a sua volta, ne consentirà un ulteriore, dando così ad un Paese con ormai più di 120 milioni di abitanti maggiori garanzie per la propria sicurezza energetica. Con la GERD, infatti, Addis Abeba punta a migliorare in patria l’accesso all’energia elettrica, oggi stimato poco sopra il 50%, a ridurre l’importazione di combustibili fossili, con relativi benefici nel contenimento del passivo commerciale, ed ancor più a divenire un hub energetico regionale, rendendo l’energia elettrica una voce sempre più importante delle sue esportazioni. Tutto ciò esprime l’idea di un progetto di ampio respiro, che pur a costo di gravi sacrifici potrà dare infine degli importanti vantaggi per lo sviluppo nazionale.
Proprio qui, però, sorgono i principali problemi. L’Egitto e il Sudan dipendono per oltre il 90% dalle acque del Nilo per la produzione di energia elettrica e le attività agricole, senza considerare il fabbisogno idrico della popolazione, in entrambi i casi stanziata in prevalenza proprio lungo le rive del Grande Fiume. I negoziati trilaterali, guidati dall’Unione Africana, in tutti questi anni non hanno sortito grandi risultati, e così pure quelli tentati da altri loro importanti alleati comuni, dalla Cina alla Russia. Ad oggi, l’uso delle acque del Nilo è regolamentato dall’accordo firmato tra Egitto e Sudan nel 1959, revisione di quello coloniale del 1929, con una suddivisione rispettivamente in 55,5 e 18,5 milioni metri cubi in base al ciclo delle piene. Tale accordo è rafforzato da una sentenza arbitrale della Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU del 1989, che ha sancito per gli accordi idrici la stessa immutabilità di quelli sui confini. L’Etiopia, ritenendosi però estranea ad un accordo che non ha firmato, e svincolata a causa delle fallite mediazioni da intese comuni sull’operatività della GERD, dal 2020 ha proceduto unilateralmente a colmarne il bacino. Ciò ha scatenato nuove tensioni col Cairo, portandola senza successo a sollecitare l’intervento del Consiglio di Sicurezza ONU.
Lo scontro geopolitico sull’uso delle acque del Nilo va ad intrecciarsi anche con altre partite regionali; nella guerra civile in Sudan, ad esempio, l’Etiopia sostiene le RSF (Rapid Support Forces) del Generale Mohamed Dagalo Hemeti, mentre l’Egitto è al fianco del Governo nazionale sudanese, guidato dal Capo del Consiglio Sovrano di Transizione, Generale Abdel Fattah Burhan. Tra le ragioni del conflitto in Sudan, non solo il controllo delle acque, che Addis Abeba punta indirettamente ad ottenere con l’indebolimento dell’unità statale di Khartum e promuovendo una salita al potere dell’alleato Hemeti; ma anche l’accesso al mare, come attestato dai lunghi tentativi delle RSF di conquistare Port Sudan e le aree più prossime al confine etiopico. Sempre per l’accesso al mare, l’Etiopia ha alimentato forti tensioni con la vicina Eritrea, soprattutto per il porto di Assab, e con la Somalia, ventilando nel 2024 con uno specifico memorandum un riconoscimento del separatista stato del Somaliland in cambio di una concessione da parte di quest’ultimo di una base portuale e militare sul Golfo di Aden.
Dietro questi obiettivi, che vanno ben oltre una semplice volontà di perseguire e salvaguardare l’interesse e la sovranità nazionali, s’intrecciano le mire di due importanti alleati di Addis Abeba come gli Emirati Arabi Uniti ed Israele, desiderosi di espandere la loro influenza nel Corno d’Africa e nel Mar Rosso. Israele punta a stabilire propri presidi navali e militari sulle coste, così da controllare maggiormente i paesi arabi del Golfo, le rotte del Mar Rocco e del Golfo di Aden e stringere nella morsa gli Houthi yemeniti; gli Emirati a rafforzare il loro peso nell’area e contenere quello della rivale Riyad finanziando questi progetti e realizzandone altri di analoghi ad uso proprio. La triangolazione strategica tra Etiopia, Israele ed Emirati ha portato lo scorso anno alla nascita di un’altra alleanza, tra Egitto, Eritrea e Somalia, e anche ad un più deciso impegno della Turchia a Mogadiscio, decisa a non veder sfumare anni di sforzi ed investimenti nella ricostituzione della statualità somala. In particolare Ankara ha fortemente mediato tra Addis Abeba e Mogadiscio per un superamento del MoU tra Etiopia e Somaliland, risultato infine ottenuto. In tutto questo tempo, Turchia ed Egitto hanno pure raddoppiato la loro presenza militare a Mogadiscio.
Le tensioni intorno alla diga, in un quadro del genere, non possono che salire quanto il livello del suo bacino. Scontando continue e sotterranee ingerenze da altri paesi come Israele, gli Emirati o ancora gli Stati Uniti, che hanno agito da mediatori interessati ed incendiari, in tutti questi anni i paesi della Valle del Nilo non sono riusciti a raggiungere con mezzi politici un comune punto di vista sull’uso delle acque del Grande Fiume. Di conseguenza, le probabilità di nuovi scontri militari, diretti ed indiretti, non appaiono del tutto peregrine. Per difendere la GERD, nel timore di un attacco aereo egiziano, Addis Abeba ha posto nuovi sistemi antiaerei Pantsir-S1, acquistati dalla Russia con forti rimostranze del Cairo con Mosca che, in cambio, ha provveduto a vendere all’Egitto nuovi caccia Su-35. Anche altri sistemi di difesa entrati nell’arsenale di Addis Abeba, come lo SPYDER-MR acquistato da Israele, hanno sollevato preoccupazioni al Cairo, con un suo infruttuoso tentativo di bloccarne la compravendita. L’Etiopia giustifica la sua crescente militarizzazione con l’eventualità di attacchi, oltre che dal Cairo, anche da Khartum, con cui le relazioni comprensibilmente non sono delle migliori e che, nel caso di uno scontro di Addis Abeba con l’alleanza tra Egitto, Eritrea e Somalia, si schiererebbe con quest’ultimi.
Tuttavia, esistono anche altre motivazioni più recondite, legate al fronte interno. Il governo di Addis Abeba, guidato dal Prosperity Party di Abiy Ahmed, sconta una sempre più grave crisi di consensi, con l’insorgere di numerose ribellioni interne, dai combattenti Amhara del FANO a quelli Oromo dell’OLA. Interi reparti dell’esercito federale etiopico, spesso muniti di armamento pesante, si arrendono agli insorti, soprattutto del FANO, dotati di sole armi leggere, non di rado passando poi pure dalla loro parte; a riprova che neppure le migliori tecnologie militari possono compensare, in un esercito, la demoralizzazione e la mancanza di consenso politico. E’ la crisi economica a logorare il consenso per il governo: l’inflazione, stimata ben sopra il dato ufficiale 13,7%, erode il potere d’acquisto; il valore del birr, al cambio ufficiale quotato a 142 per 1 dollaro, al mercato nero vale assai meno; mentre il debito pubblico, sempre più nelle mani del FMI, risulta ormai ampiamente sopra i 30 miliardi di dollari dichiarati. Tali dati esprimono l’idea di un governo che da una parte cerca di scaricare verso l’esterno le crescenti contraddizioni interne e dall’altra si rinchiude nei palazzi, temendo il confronto con una popolazione divisa sì da forti conflittualità intestine, ma anche sempre più unita dal preoccupante desiderio di cambiare politicamente pagina. La crescente militarizzazione di Addis Abeba si spiega quindi anche con un uso interno, sebbene al momento non paia sortire risultati davvero efficaci.
Dati economici tanto opachi forniscono dubbi anche su come la GERD, in tutti questi anni, sia stata realmente finanziata. Secondo il governo, i costi dell’opera sarebbero stati coperti con risorse interne, ad esempio obbligando i dipendenti pubblici a contribuire con parte dei loro salari, vendendo obbligazioni ai cittadini e ricorrendo ad altre risorse governative; intuibilmente tali misure, in un paese dal reddito pro capite di 1.200 dollari, hanno suscitato più di una critica. Oltre alle fonti interne, per coprire parte del finanziamento Addis Abeba ha fatto ricorso anche ad una sottoscrizione tra i cittadini della Diaspora etiopica all’estero; ma in ogni caso per ultimare i pagamenti al gruppo di imprese guidato da WeBuild (già Salini Impregilo) molti capitali hanno continuato ancora a mancare all’appello. A luglio il premier Abiy Ahmed, in visita a Roma, ha chiesto a Giorgia Meloni di usare una parte dei fondi del Piano Mattei per coprire l’ultima rata della GERD, di fatto chiedendo all’Italia di pagarsi da sola; comprensibilmente scontrandosi col rifiuto italiano. Poco dopo, il Presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avevano provveduto a coprire il pagamento, trovando però la smentita etiopica. Ad ogni modo, per concludere con la lista dei finanziatori, altri 1,8 miliardi sono stati forniti anche dalla Cina, soprattutto per la realizzazione di opere collaterali alla diga, come la rete di trasmissione elettrica con le città etiopiche e potenzialmente i paesi vicini, attraverso crediti erogati dalla Export-Import Bank of China (Exim Bank).
Come già dicevamo, la GERD è indubbiamente un progetto di ampio respiro, suscettibile di divenire un grande motore di sviluppo per l’Etiopia: come certe immense opere idrauliche dell’antichità, costruite col sudore e la vita di generazioni, anch’essa ha avuto un forte costo umano, stimato nella vita di almeno 15.000 etiopici. Ma è frutto anche di decisioni unilaterali, che non hanno tenuto conto degli equilibri geopolitici in tutta la regione, e che oggi sempre col medesimo unilateralismo vengono portate avanti. La sua inaugurazione segna certamente un traguardo storico per l’Etiopia, e in generale per tutto il Continente Africano. Ma al contempo assegna all’Etiopia anche un nuovo e storico dovere: quello di far sì che questo suo nuovo motore di sviluppo diventi anche motore di cooperazione ed integrazione regionale, anziché di tensione e di conflitto.